sabato 1 giugno 2013

La folle storia del disastro del Vajont: un esempio di scelte economiche che non hanno assolutamente tenuto conto della Geologia

Il disastro del Vajont è stato un classico esempio di una classe economica e dirigente incapace di capire che con la Natura non si scherza, nonostante gli allarmi lanciati da qualche mente illuminata. Di tragedie antropogeniche ne succedono tante ancora oggi, spesso considerate a torto “calamità naturali” (o, meglio, “totalmente naturali”). Ma le 2000 vittime di quella tragedia sono da addebitarsi esclusivamente alla sola mano dell'uomo ed è incredibile con gli occhi di oggi, 50 anni dopo, vedere quella terribile serie di errori e avventatezze, compiuti ignorando gli allarmi della Natura, della popolazione locale e di un geologo, Edoardo Semenza, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente proprio lungo il pendio in riva destra del Vajont che sovrasta la massa franata e da cui si vede il Monte Toc. Ma il Vajont è anche altre cose: è stato il primo disastro divenuto evento mediatico, grazie alla recentissima introduzione della televisione; ed è anche in testa alla classifica stilata dall'ONU a proposito dei peggiori esempi di gestione del territorio. In questo post voglio raccontare la genesi della tragedia, anche sfruttando un convegno che si è tenuto a Firenze su questo argomento e principalmente la presentazione di Riccardo Fanti e Giovanni Gigli. Ringrazio anche Riccardo per la rilettura di questo testo.

La diga del Vajont è stata ideata e costruita dalla SADE, l'azienda elettrica fondata da Giuseppe Volpi, conte di Misurata (1877 – 1947). Volpi, un gerarca fascista, godeva di evidenti simpatie anche nel governo Badoglio, dato che già prima della fine del 1943 questo governo, con quasi tutta l'Italia ancora da riconquistare (e specificamente Veneto e Friuli), concesse alla SADE la facoltà di costruire questo impianto.
L'idea di una diga in quella valle risaliva agli anni '20; nel progetto originale doveva essere innalzata più a monte e solo durante lo sviluppo del progetto fu deciso di posizionarla più a valle.
All'epoca si trattava della diga a doppio arco più alta del mondo (ancora oggi è in quarta posizione in questa classifica) e faceva parte di un sistema con obbiettivo primario la produzione di energia elettrica, ma che doveva servire pure ad alimentare un acquedotto a scopi irrigui per la pianura veneta, collegato con il fiume Livenza, come si vede dal disegno qui accanto.

COSTRUZIONE DELLA DIGA: TRA LE PAURE DELLE POPOLAZIONI LOCALI 
E I PRIMI TIMORI DI CARLO SEMENZA

La costruzione della diga era stata avversata dalle popolazioni locali ma – fatto estremamente importante – non dagli abitanti dei paesi a valle della costruenda diga, che saranno colpiti dalla tragedia, bensì da quelli lungo la sponda destra della valle in corrispondenza del futuro lago: temevano frane in quel settore. A questo proposito c'è un po' di confusione sulla toponomastica della zona: secondo Marco Paolini, autore di un celebre monologo sulla tragedia il nome del fiume, Vajont, vuol dire “va giù”; e il nome del monte Toc sarebbe una contrazione di “patoc” che significherebbe “andato a male”. In verità la cosa è abbastanza complessa e non è affatto certo che l'etimologia sia quella che riporta Paolini. I nomi sono di origine probabilmente cimbra e comunque 'vajont' vuol dire 'vallone' e non 'va giù' (Paolini dice che in ladino vuol dire 'va giù, ma questa è una zona a lingua friulana, non ladina).
Per altri Toc deriva dal continuo scivolare di massi per cui si sente continuamente “toc toc”.
L'unico giornalista che parlò dei timori della popolazione, con un primo esempio italiano di quel giornalismo d'inchiesta oggi così popolare fu Tina Merlin (1926 – 1991) sulle colonne de “L'Unità”; il giornale locale, il Gazzettino, ospitava soltanto comunicati della SADE e quindi le opposizioni della popolazione erano davvero poco conosciute. È evidente come la SADE fosse riuscita a silenziare le proteste e quindi quanto fosse grande il suo potere, grazie al quale la Merlin fu persino accusata di turbare l'ordine pubblico, venendo poi assolta nel conseguente processo.

I lavori ebbero inizio alla metà degli anni '50.
Nel 1957 la SADE chiese di aumentare l'altezza del manufatto, cosa che fu concessa molto rapidamente (da notare che erano talmente sicuri della risposta positiva che il manufatto era già stato adeguato in basso per ottenere questo risultato in sicurezza). Fu fissata la quota del massimo invaso a 721,60 metri sul livello del mare

La costruzione della diga era ormai avviata quando, il 22 marzo del 1959, si presentò un problema non previsto: una frana in un altro invaso del sistema del Piave, quello del Pontesei, situato nella Val di Zoldo sul torrente Maò, un affluente di destra del Piave che vi confluisce un po' più a valle di Longarone.
Nella foto si vede come la frana abbia pesantemente inciso sulla superficie dell'invaso, che è tuttora funzionante anche se in maniera ridotta rispetto al previsto.
Questo evento fu un campanello di allarme per l'ing. Carlo Semenza (1893 – 1961), progettista e costruttore della diga, il quale ebbe il timore che anche nel Vajont qualcosa sarebbe potuto andare storto.

Era una sensazione nuova: fra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo le dighe avevano già provocato dei disastri – e tanti – ma il problema era sempre dovuto a rotture dei manufatti, per esempio nel caso di Gleno in Valle di Scalve nel 1923 o quello di Saint Francis in California nel 1928. In Francia meridionale sempre nel 1959 ma il 2 dicembre ci fu l'ennesimo cedimento strutturale: crollò la diga di Malpasset. Questo solo per citare gli eventi più noti. Solo in un caso il problema avvenne per delle forti piogge, in Liguria nel 1935 alla diga di Molare. Purtroppo un altro caso di questo tipo è successo in Italia parecchi anni dopo, nella valle di Stava. Correva l'anno 1985.

A causa di questi incidenti erano state sviluppate norme tecniche molto severe sui manufatti delle dighe, sulle zone di contatto fra manufatti e rocce incassanti (le “spalle”) e sulla tenuta idraulica del bacino. Però non c'erano normative sul controllo di quanto circondasse il lago che si veniva a formare. Ad ogni modo l'incidente del Pontesel convinse l'Ing. Semenza a fare una indagine sulla situazione della franosità lungo le pendici del costruendo bacino.

LE DISCUSSIONI SULLA GEOLOGIA DELL'AREA E SULLA POSSIBILE FRANOSITÀ

Fu chiamato il geologo austriaco Leopold Muller (1908 – 1988). Insieme a lui operava un giovane geologo italiano, Edoardo Semenza (1927 – 2002) figlio di Carlo: per un geologo questa era una ottima occasione per studiare e accumulare esperienza sul campo. Ovviamente godeva della fiducia del padre, il quale immagino conoscesse la potenza della SADE e magari non era sicuro di potersi fidare di altri geologi inviati dalla società stessa.
Comunque, Muller e Semenza Jr e capìrono esattamente che dal Monte Toc si era già staccata in epoca passata una frana di grosse dimensioni e che il versante che incombeva sul futuro lago ospitava una gigantesca massa instabile pronta a franare. La paleo frana aveva riempito il solco scavato dal torrente Vajont, il quale successivamente ha ricominciato ad incidersi uno stretto solco, stavolta nei depositi della frana, più erodibili dei calcari su cui era impostato il vecchio percorso. Questi celebri schizzi che spiegano la situazione sono presi direttamente dal taccuino di campagna di Edoardo Semenza, il quale  in quanto nonostante i pochi dati e i pochi mezzi a disposizione, capì esattamente la situazione. mostrando quelle straordinarie capacità che verranno poi confermate in una bellissima carriera accademica.

La situazione era complessa perchè da un lato Muller e Semenza sostenevano la presenza di questa paleofrana e di un corpo in frana particolarmente esteso sul monte Toc e avevano il timore che il riempimento dell'invaso poteva rimetterlo in movimento; altri due geologi invece, Giorgio Dal Piaz e Pietro Caloi, sostenevano che i rischi maggiori erano nel versante destro della vallata e che sul Monte Toc c'erano sì delle piccole franette superficiali ma non c'era una paleofrana sul fondovalle né che il Monte Toc era instabile.

La già citata frana francese del 3 dicembre 1959 aumentò ulteriormente le paure della gente (anche se, appunto, anch'essa fu un cedimento della diga e non una frana nel lago).
Nel giugno del 1960 Edoardo Semenza presentò insieme ad un altro geologo, Franco Giudici, una relazione in cui individuava sul Monte Toc una immensa massa, oltre 200 milioni di metri cubi di roccia, pronta a franare in basso. Fra gli indizi citati per arrivare a questa conclusione c'erano la morfologia molto irregolare del pendio e l'assenza di sorgenti, che in qualche modo denunciava la presenza di una circolazione di acque sotterranee. A questo si deve aggiungere la presenza di un livello di argille proprio alla base del presunto corpo di frana, livello che poteva funzionare da lubrificante per il movimento (cosa che puntualmente purtroppo è successa). Inoltre confermava la presenza nel versante opposto di materiale proveniente dal Monte Toc, finito lì durante il precedente evento franoso.
La cosa che preoccupò maggiormente Muller e Semenza era che la superficie che separava il corpo di frana dalla roccia solida del Monte Toc si sarebbe trovata sotto la superficie dell'invaso.

1960: LA PRIMA PROVA DI INVASO E I PRIMI FENOMENI FRANOSI. 
DISCUSSIONI E POSSIBILI RIMEDI

Nel novembre del 1960 viene effettuata la prima prova di invaso, con l'obbiettivo di raggiungere la quota di 660 metri slm, corrispondenti a circa 200 metri di profondità dell'acqua. E il 4 novembre, (praticamente subito, quindi) dal monte Toc viene giù una prima franetta, di ridotte dimensioni (6/700 metri cubi) ma tale da provocare nel lago un'onda di circa 10 metri.
L'allarme si fa fortissimo. Però si parla sempre e soltanto delle zone alte, non di Longarone e della valle del Piave.

In concomitanza succede una cosa ancora più allarmante: si forma una frattura nella zona più alta del corpo di frana, al contatto con la roccia solida, proprio lungo la superficie individuato precedentemente da Semenza e Muller. La vediamo in una foto scattata da Edoardo Semenza.
Che cosa è successo? Ad un certo punto, con l'innalzamento della superficie del lago l'acqua è penetrata nella zona di contatto fra la roccia solida e il corpo della frana, mettendo in movimento quest'ultimo.
Il livello del lago venne prontamente abbassato.

Muller, assolutamente convinto che era impossibile fermare i movimenti, propose di controllare la frana attraverso variazioni del livello del lago, ipotizzando che la prima bagnatura della sponda avrebbe innescato i movimenti franosi che poi sarebbero cessati e quindi la seconda bagnatura avrebbe potuto avvenire tranquillamente. Questa era un'idea del geologo austriaco che però non era assolutamente suffragata dai fatti. A vederla con gli occhi di oggi questa era una pazzia. Certamente oggi un impianto del genere in una situazione del genere non si potrebbe costruire.

Il problema è stato che Muller, pur avendo correttamente visto ed interpretato la situazione, non si era reso conto che la base del corpo di frana era contrassegnata da un livello argilloso (la zona è in generale formata dai calcari della piattaforma che nel Mesozoico e in parte del Cenozoico bordava la costa orientale di una massa continentale della placca adriatica), che comunque aveva annotato Edoardo Semenza, riconoscendone la pericolosità per un possibile riuolo fondamentale nel movimento franoso. Muller inoltre era convinto che il monte si sarebbe mosso molto lentamente, come un ghiacciaio.

Il piano era dunque di alzare velocemente il livello dell'invaso e provocare delle frane abbassandolo violentemente, nella speranza di realizzare una situazione simile a quella dei ghiacciai, dove nella parte inferiore grossi blocchi tengono fermo tutto quello che sta sopra. In questa maniera si pensava quindi di bloccare per sempre le frane e di poter procedere a innalzare di nuovo il livello dell'invaso senza che succedesse niente di altro grazie alla resistenza impressa da grandi blocchi che dovevano franare e costituire una base solida che doveva bloccare ulteriori movimenti.

LA GALLERIA DI BYPASS

Operare in questo modo significava però che una parte dell'invaso previsto sarebbe stata occupata dal materiale franato anzichè dall'acqua e ciò rappresentava innanzitutto un problema economico; l'impianto avrebbe ospitato meno acqua e quindi avrebbe potuto produrre meno energia elettrica del previsto.
Carlo Semenza allora progettò di scavare nella roccia viva una galleria di circa 2,5 Km con un diametro di 4 metri e mezzo: il bypass avrebbe consentito il passaggio delle acque tra le due porzioni del lago e per il principio dei vasi comunicanti sarebbero state mantenute le stesse potenzialità dell'impianto.
Ma il bypass era stato progettato anche ai fini della sicurezza: nel caso le frane avessero completamente ostruito il passaggio alle acque non ci sarebbero stati rischi di violente tracimazioni dal bacino a monte dello sbarramento.

1961: LA SECONDA PROVA DI INVASO

Intanto la SADE mostrava una certa fretta perchè era nell'aria la nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, che diventerà effettiva alla fine del 1962. Il criterio adottato per i risarcimenti alle aziende nazionalizzate fu quello del valore delle azioni ed era evidente che le azioni della SADE avrebbero avuto un valore maggiore con il Vajont funzionante e sarebbe stato un disastro economico se invece questo invaso non fosse stato in grado di produrre quanto sperato.
Non so se anche per questo Muller e Semenza Jr furono messi in disparte.

La seconda prova di invaso fu condotta dal febbraio al settembre del 1961. Fu raggiunta la quota di 700 metri e durante questo periodo furono compiuti diversi innalzamenti graduali del livello a cui seguivano veloci diminuzioni nella speranza di provocare delle frane.

Nell'ottobre del 1961 muore Carlo Semenza. Sono in molti a pensare che con lui vivo la tragedia non sarebbe successa perchè si sarebbe opposto al proseguimento delle operazioni.
Fu anche costruito un modello idraulico a Padova che però sottostimò l'onda. Era uno dei primi modelli al mondo e quindi non si può certo imputare alcunchè al Prof. Ghetti. La cosa importante di questo lavoro è che per la prima volta qualcuno si rende conto che l'eventuale onda avrebbe provocato grossi guai più che a Erto o a Casso, ai centri abitati sotto la diga, come appunto Longarone.
Ghetti aveva comunque fissato un limite di sicurezza non valicabile pena l'aumento degli effetti di un'onda innescata da una frana per le zone sottostanti: secondo lui il livello dell'invaso non avrebbe dovuto passare la quota di 700 metri. Poi il livello fu abbassato mentre si provvedeva a costruire la galleria di by-pass. In particolare venne tenuto al di sotto della quota alla quale affiorava lungo il pendio il livello di scorrimento della frana.

1063: LA TERZA PROVA DI INVASO E LA TRAGEDIA

E arriviamo al 1963. Finiti i lavori, inizia la terza prova, nella quale innanzitutto vengono superati i 700 metri di altezza fissati dal prof. Ghetti.

Come da previsioni di Muller e di Semenza jr si innescano subito dei movimenti franosi e per sicurezza dal 7 ottobre vengono chiuse alcune strade, ma sempre nella parte in alto, continuando a non considerare a rischio le zone sotto la diga, mentre si cerca di abbassare il livello dell'invaso a quota 700.
Ma poi arriva la tragedia: 260 milioni di metri cubi di roccia precipitano a valle e si forma un'onda che scavalca la diga (che si comporta egregiamente, resistendo ad una pressione venti volte superiore a quella per cui era stata costruita). L'onda è talmente alta da passare ben al di sopra dei tetti di alcuni abitati sottostanti, i quali si salvano; quando l'onda si abbatte su Longarone e le aree limitrofe, oltre a scendere verso valle, risalì di parecchi km il fondo della valle del Piave.

Cosa è successo? Come mai la frana è caduta ad una velocità pazzesca, oltre 100 km/h, mentre si pensava ad un movimento molto più lento? Quali errori sono stati commessi?
Il primo errore è stato quello di considerare per lo sviluppo della frana solo l'acqua dell'invaso che per capillarità si sarebbe infilata nelle fessure delle rocce, diminuendo le forze di attrito: doveva essere considerata anche l'acqua piovana. E in quei giorni piovve parecchio.
Il secondo errore sta nel non aver previsto un comportamento particolare del corpo di frana, il quale si è diviso a causa di una intensa fratturazione in più corpi più piccoli: i blocchi così formati si sono mossi tutti insieme, causando una forte accelerazione dei movimenti perchè in questo modo le spinte fra un blocco e l'altro hanno fortemente combattuto l'attrito con il terreno sottostante.

UNA STORIA DIMENTICATA PER TANTO TEMPO

Il velo che copriva i problemi prima della sciagura (articoli della Merlin a parte) è rimasto anche per parecchi anni dopo.
Per molti intellettuali non geologi (Montanelli o Buzzati, per esempio) era un esempio di “natura crudele”, un concetto come abbiamo visto totalmente errato. Poi c'è stata una “ragion di Stato” molto particolare, probabilmente per gli enormi interessi che erano in gioco, che si è riflessa in alcuni aspetti molto precisi: in primo luogo un processo di lunghezza abnorme e grandi difficoltà nel pagamento degli indennizzi agli abitanti e ai loro eredi; ma quello che da da pensare è soprattutto la circostanza che nessun finanziamento fu erogato a Edoardo Semenza per studiare la frana ed il suo contesto;
Anche il libro che scrisse la Merlin – “Sulla pelle viva: come si costruisce una catastrofe” – ha trovato un editore solo nel 1983, a 20 anni dalla strage.
E bisogna aspettare il 1985 per vedere il primo lavoro geologico sulla frana del Vajont e per giunta non da studiosi italiani ma da due geologi del Corpo degli ingegneri dell'Esercito Americano, Hendron e Patton.
Questa storia è poi finalmente arrivata al grande pubblico con lo spettacolo di Marco Paolini “Il racconto del Vajont” del 1997.

Oggi una cosa di tipo diverso ma simile per l'intrico di interessi economici e politici sta succedendo a Taranto con il caso ILVA: l'azienda è stata lasciata libera per anni (anzi decenni) di fare quello che voleva, conservando uno status quo inaccettabile con il risultato di incancrenire la situazione ambientale e sanitaria e porre per l'ennesima volta in contrasto da una parte il lavoro, dall'altra la salute pubblica e l'ambiente.
Con una gestione diversa del problema forse le cose sarebbero andate diversamente.

Nessun commento: